Treni.

Fino da bambino, dalla sua cascina, Domenico sentiva i treni passare, furiosi e sibilanti nella notte. E pensava eccitato al giorno che ci sarebbe salito su , per correre trionfante verso città sconosciute, brulicanti di genti misteriose.
Nell’adolescenza poi quei mostri d’acciaio erano diventati i veicoli dei suoi sogni e la promessa tangibile della loro futura realizzazione. A volte, quando il sonno tardava a venire, si alzava apposta per guardare quella lunga teoria di facce un po’ annoiate che occhieggiavano dai finestrini illuminati e sembravano invitarlo ad andare con loro.
Ma non si può certo salire su un treno qualunque soltanto per soddisfare l’ansia di farsi portare via. Ci si doveva preparare, progettare, programmare, che la vita non è mica un’impresa che si improvvisi così. E poi come pensare di lasciare a cuor leggero quelle dolci colline ch’erano state teatro delle eroiche gesta della sua fanciullezza, quei campi di grano punteggiati di papaveri e fiordalisi sui quali le rondini si lanciavano in picchiata come aerei da combattimento.
Così tante volte Domenico era stato sul punto di partire, ma sempre qualche evento o qualche nuovo pensiero l’aveva fermato. O la salute malferma della madre o qualche grana da sistemare giù in paese o semplicemente perché, all’ultimo istante, gli sovveniva d’un qualcosa a cui non aveva ancora pensato e che gli faceva ritenere di non essere pronto abbastanza.
E, col tempo che passava, questi ostacoli che l’inducevano a procrastinare, anziché farsi più rari, divenivano sempre più numerosi ed importanti, sicché Domenico cominciò alfine a dubitare che la vita gli sarebbe bastata a prepararsi.
Per giunta la stazioncina del paese, dove ogni tanto fermava qualche raro treno regionale, era stata chiusa ed ora, per pigliare il treno, ci si doveva recare fino al capoluogo, distante trenta chilometri.
A questo pensava anche quella notte, rigirandosi nel letto in compagnia delle sue ossa e dei loro dolori, e si diceva che in fondo quella vita non era stata così male; come una tranquilla passeggiata in calesse lungo una strada piana e bene assestata. Anche se altro era ciò che avrebbe desiderato. L’Intercity di mezzanotte e quaranta arrivò improvviso, sferragliando e divorando tutti i suoni quieti della notte. Domenico quasi non lo avvertì nemmeno, e non si sognò neppure di affacciarsi alla finestra per guardarlo passare.
Adesso che anche l’ultimo treno era corso via, la campagna era stata nuovamente riassorbita dal buio ed ancora si udiva la voce dei ranocchi.
Domenico si voltò dall’altra parte e chiuse gli occhi. Ma di lì a poco un rumore improvviso glieli fece riaprire e si accorse di essere sul treno. Non ricordava quando c’era salito né dove stava andando, ma era molto eccitato e la locomotiva fischiava trainando le carrozze sempre più velocemente. Fuori era buio e s’intravedevano rari lampioni, come lampi di luce, e finestre di stanze illuminate da cui certamente qualche ragazzo lo stava osservando invidioso, come aveva fatto lui nella giovinezza.
Finché ad un tratto tutto fu buio (forse il treno era entrato in galleria) e non s’udì più alcun rumore. Non il fischio della locomotiva, non lo sferragliare delle ruote sulle rotaie. Pareva di viaggiare su una navicella nello spazio infinito, non fosse stato per quella strana luce diffusa che si andava aprendo là in fondo.