La morte con le ciabattine

 

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I recenti avvenimenti del Myanmar, pur nella loro cruenta drammaticità, non hanno i caratteri per stupire. Sono storia già vista : l’ennesimo epilogo di una feroce dittatura che tenta di prolungare la propria agonia, sostentandosi col sangue di pacifici cittadini. Quello che invece mi ha impressionato è stata questa foto di un giornalista giapponese che giace a terra, colpito a morte; con le mani protese che ancora impugnano quell’arma tremenda, invisa e temuta da tutte le dittature: la macchina fotografica. Il testimone muto e inconfutabile delle loro nefandezze.

Di fronte a lui un soldato, con il mitra in pugno, nell’atto di avanzare. Ed il particolare che più stupisce, e sembra stonare, è che entrambi portano ai piedi un paio di ciabattine. Quasi come se quella scena non fosse una tragica realtà, ma l’ultima prova di una recita teatrale, in cui gli attori indossano, sì i costumi di scena, ma possono pure concedersi di trascurare qualche particolare.

E se per il giornalista quella tenuta da spensierato turista, con i calzoni corti e la camicia a quadri, può pure apparir giustificata, stupiscono le infradito del soldato; quasi fosse stato chiamato ad indossare la mimetica e l’elmetto, mentre appena fuori dell’uscio di casa, si stava recando a buttare la spazzatura.

Sono un’ulteriore sfacciata dimostrazione di come, avendo di fronte solo civili inermi e scientemente non violenti, la repressione si riduca per loro ad una comoda e tranquilla passeggiata di morte.

Pomeriggio d’autunno

 

 

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Pensavo a lei

nel pomeriggio

tardo d’autunno,

lei ch’era fuggita

col vento caldo d’estate,

lei ch’era rimasta

signora dei miei pensieri.

 

Pensavo a lei

col sole radente

a trafiggermi gli occhi,

disavvezzi alla luce.

 

Pensavo a lei

ed eran dardi quei raggi,

tra le foglie protese

come inutili mani…

 

 

è stato così, signor vigile,

che non ho visto il rosso

(non si potrebbe chiudere

un occhio, per questa volta?)

Perchè non volli esser poeta.

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Purtroppo nella nostra società lo scriver versi viene presa come una faccenda molto seria. E ciò vuol dire che non si può essere poeti dilettanti, come si può invece praticare per passione qualche sport, tipo il calcio od il ciclismo, senza dovervi necessariamente eccellere, magari abbastanza da ricavarne un sostentamento.

Per l’opinione comune della gente o si è poeti o non lo si è; non esistono mezze misure. E siccome i poeti veri sono veramente pochi, se qualcuno ha la malaugurata idea di confessarsi verseggiatore per diletto, per ben che vada ne ricava sguardi di diffidenza o malcelato compatimento.

Forse a corroborare questa convinzione ha fortemente contribuito l’affermazione dell’eminente storico e filosofo Benedetto Croce, il quale diceva che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, rimangono solo due categorie di persone ad impegnarsi in questa attività: i poeti ed i cretini. Per cui il grande Faber (De Andrè), vero ed autentico poeta, era solito affermare che preferiva, per prudenza, definirsi “cantautore”.

Ad ogni buon conto, giunto sul finire della prima giovinezza, dopo aver riempito, come molti a quell’età, un quadernetto di poesie, e a prescindere dal rischio d’apparir cretino, mi rifiutai comunque d’esser poeta; quand’anche fosse stato dimostrato che potessi averne le capacità. Perché un poeta felice a dire il vero non l’ho mai visto; ed anche senza scomodare il povero Leopardi o altri illustri esempi, sembra ormai accertato che la sublime poesia tragga la sua più feconda ispirazione dall’umana sofferenza ed infelicità. Sicché appuntai sull’ultima pagina del quadernetto quella che ritenevo essere la vera natura della mia poesia:

PRESUNZIONE

ORGOGLIO

EGOISMO

SOLITUDINE

IMPOTENZA

ALIENAZIONE

Poi chiusi per sempre quel quaderno e andai incontro al mondo della prosa quotidiana…

 

 

 

Lettera al segretario del partito

 

 

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Carissimo Pierfranco, ti scrivo queste poche righe per ringraziarti dell’affetto e della solidarietà che hai saputo dimostrarmi, in occasione dell’immane tragedia che ha colpito la mia famiglia e, al tempo stesso, per pregarti di voler accettare fin d’ora le mie sofferte ma irrevocabili dimissioni dal partito; così come successivamente, nelle sedi opportune, abbandonerò tutti gli incarichi istituzionali che, in virtù della mia appartenenza ad esso, attualmente detengo.

Giudico infatti le convinzioni, che negli ultimi tempi sono andato maturando, non più compatibili con gli ideali e i fondamenti ispiratori della formazione politica che, con saggezza e perizia unanimemente riconosciute, da diversi anni hai l’onore ed il merito di dirigere.

 

Fino a poco più di un mese fa ritenevo che si potesse tenere il nostro mondo separato da quello di coloro a cui ho sempre predicato la pratica di nobili intendimenti, quali il garantismo e la tolleranza.

La terribile tragedia che mi ha colpito mi ha reso consapevole che la distaccata superficialità con cui classificavo certi orrendi accadimenti come eventi spiacevoli, ma isolati e fuori dell’ordinario, era alimentata dall’intima convinzione che mai e poi mai simili fatti avrebbero potuto prevedere un mio diretto coinvolgimento; che in nessun caso quell’orrore quotidiano, divenuto oggi quasi banale, avrebbe potuto valicare la cinta sicura delle nostre ville, l’attenta sorveglianza dei body-gard e delle forze dell’ordine e l’estrema soggezione che incute il nostro privilegio.

Ma non avevo fatto i conti con quest’onda irrefrenabile di follìa distruttiva ed autodistruttiva (causa o effetto – chissà? – del crescente abuso di alcool e droghe, o del disumano deserto di affetti, che costituisce l’habitat naturale di molti individui) che sembra aver permeato ogni recondito meandro della nostra società; un orrido magma nero, ribollente sotto i nostri piedi, pronto ad esplodere con violenza devastante e senza il minimo preavviso.

Io tuonavo sulle piazze contro gli egoismi e i pregiudizi dei razzisti e dei forcaioli, ed intorno a me vegliavano uomini dalle spalle larghe, con gli auricolari e gli occhiali scuri. Ma non c’erano guardie del corpo quel giorno, in quell’aula universitaria, a proteggere il mio angelo biondo… E chi avrebbe mai potuto pensare di far del male, in pieno giorno, davanti a decine e decine di persone, ad un’esile ragazza indifesa, la cui spensierata giovinezza sembrava incarnare la più autentica essenza della vita? Un mostro, un pazzo per l’appunto, uno che nutre un odio incontenibile per sé, per gli altri e per la vita stessa.

Le quaranta coltellate che quel folle ha inferto nelle carni della mia bambina, nei giorni successivi, hanno trapassato cento e cento volte quel grumo sanguinante ch’è diventato il mio cuore; sono penetrate a fondo nella mia mente, nelle regioni più oscure ed inconsce dell’anima; e hanno travolto inesorabilmente quelle che credevo essere le mie solide convinzioni, politiche e religiose.

 

Ora tu penserai che sono giustamente sconvolto dai recenti avvenimenti e che, quando quel grande sciamano ch’è il tempo avrà provveduto pian piano a cospargere d’unguenti le mie ferite, riuscirò, seppure a fatica, a ritrovare i sentieri della ragionevolezza, e dimenticherò in breve tempo questo sfogo. Ma – credimi – so per certo di non essere mai stato tanto ragionevole e saldo nelle mie convinzioni come in questo momento; così come so, invece, di aver mentito quando, per pura convenienza politica, predicavo un buonismo incondizionato e la certezza di recuperare, con un impegno collettivo, anche i criminali più efferati.

Perché converrai con me che nella nostra società è in atto un climax di gratuita violenza e di sadica crudeltà, il cui unico assurdo scopo parrebbe quello di aggiungere sempre nuovo sgomento, in chi già crede di avere assistito ad ogni possibile esasperazione dell’umana malvagità. Tanto che, per gli autori di simili gesti, si fatica a concepire l’attuazione di una pena adeguata, giacché neanche la morte sembrerebbe abbastanza.

E invece neppure più la detenzione a vita esiste, di fatto, nel nostro paese e chi ne invoca a gran voce l’abolizione mente, con la coscienza di mentire, e cavalca una finta battaglia, per ricavarne consensi elettorali; tra permessi premio, indulti e sconti di pena, è certo che nessuno, nemmeno l’autore della strage più efferata, trascorrerà mai in carcere la rimanente parte della sua esistenza.

Ora, se il mio cane, per ironia della sorte, venisse abbandonato e ritrovato a circolar per strada, finirebbe sicuramente dentro le gabbie di un canile; e questo senza essersi macchiato di colpa alcuna. Se poi, per disgrazia, dovesse uccidere o ferire gravemente un essere umano, quand’anche fosse stato da questi aggredito o maltrattato, quasi certamente rischierebbe d’essere abbattuto. Ed il mio cane – te lo assicuro – è capace di sentimenti assai più nobili del più innocente di quegli assassini, che pure si muovono, spavaldi e indisturbati, per il nostro paese, e guardano con ghigno soddisfatto a tutte le remore e i cavilli, da cui è impastoiata l’umana giustizia.

Eppure questa società, che nutre verso i cani tanto timore, pare non senta il bisogno di difendersi da quelle belve spietate, che invece impiegano la loro intelligenza per fare deliberato scempio dei propri simili; e quand’anche abbiano già dato ampie dimostrazioni della loro pericolosità sociale, sono comunque lasciati liberi di muoversi come meglio gli aggrada, perché un qualche giudice, non si sa bene sulla base di quali competenze psicologiche, ha ritenuto che “non sussiste il pericolo di reiterazione del reato”.

 

Stante questa situazione, l’unica determinazione che mi sento in grado di adottare, al fine di attribuire ancora un senso ed una qualche utilità alla mia insignificante esistenza, è quella di impegnarmi fino all’ultimo respiro, nel tentativo di restituire un minimo di giustizia e sicurezza a questo tormentato Paese.

Mi batterò , da questo momento in poi, con ogni mia risorsa morale e materiale, perché l’occhio miope della politica trasferisca finalmente la sua attenzione dai diritti di Caino a quelli di Abele; perché le persone più deboli e indifese – gli anziani, le donne, i bambini – possano frequentare serenamente le strade, anche delle grandi città, senza correre il rischio d’essere aggredite, stuprate, macellate come vittime sacrificali; perché le persone che denunciano gravi problemi mentali, o non sono in grado di contenere i propri impulsi, vengano costantemente seguite in apposite strutture e non abbandonate a sé stesse e alla disperata ed impotente solitudine delle loro famiglie; perché le belve feroci, che scorrazzano liberamente per il nostro paese e considerano i pacifici e onesti cittadini come grasse prede da scannare, vengano definitivamente rinchiuse e messe in condizione di non nuocere.

Perché una società può ritenersi veramente civile, solo nella misura in cui dimostra di sapersi difendere, da coloro che ne minacciano seriamente le basi per una pacifica e serena convivenza tra gli individui.

 

Certo della tua benevola comprensione, nella speranza che questa mia decisione non abbia a determinare il pur minimo cambiamento nel rapporto di sincera amicizia che ci lega da sempre, ti invio affettuosa testimonianza della mia profonda stima.

 

Le ferite del cuore

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Non sarà facile dimenticare.

Quei solchi profondi,

quelle ferite nel cuore,

le tracce di qualcuno

ch’è andato via.

Presto,

troppo presto

per poterlo fermare.

Presto,

troppo presto

per potergli parlare.

Ed un grigiore anonimo

ha scalzato il colore

sulla pelle lucente

di giovani cavalli.

 

Ma, brutto stronzo,

proprio la mia macchina

dovevi rigare?