Andare avanti

Solo tu, amore,

mi dai la forza

per andare avanti,

l’energia per seguitare

questo percorso

ch’è sempre

più in salita.

Solo tu m’impedisci

di fermarmi qui,

come fossi

un rottame inutile,

sul ciglio della strada.

Solo tu sei la ragione

del mio fatale andare.

Amore, coraggio…

continua a spingere,

che l’elettrauto è

in fondo alla via.

Divina provvidenza

Raramente mi capita d’annoiarmi. Vorrei, anzi, le giornate più lunghe e sottraggo ore al sonno per praticare attività più interessanti. Da ragazzo, invece, di fronte ai molti rituali ripetitivi della vita, mi accadeva spesso di provare quella fastidiosa sensazione. Da lì trassi ispirazione per questi pochi versi…

Disse l’uomo: “Vedi, o Signore,

quanto breve la mia vita:

un guizzo d’eterno,

un grano

della tua sabbia

infinita,

ed è già consumata”.

Allora Dio creò la Noia

perché più lunga

gli sembrasse.

Treni.

Fino da bambino, dalla sua cascina, Domenico sentiva i treni passare, furiosi e sibilanti nella notte. E pensava eccitato al giorno che ci sarebbe salito su , per correre trionfante verso città sconosciute, brulicanti di genti misteriose.
Nell’adolescenza poi quei mostri d’acciaio erano diventati i veicoli dei suoi sogni e la promessa tangibile della loro futura realizzazione. A volte, quando il sonno tardava a venire, si alzava apposta per guardare quella lunga teoria di facce un po’ annoiate che occhieggiavano dai finestrini illuminati e sembravano invitarlo ad andare con loro.
Ma non si può certo salire su un treno qualunque soltanto per soddisfare l’ansia di farsi portare via. Ci si doveva preparare, progettare, programmare, che la vita non è mica un’impresa che si improvvisi così. E poi come pensare di lasciare a cuor leggero quelle dolci colline ch’erano state teatro delle eroiche gesta della sua fanciullezza, quei campi di grano punteggiati di papaveri e fiordalisi sui quali le rondini si lanciavano in picchiata come aerei da combattimento.
Così tante volte Domenico era stato sul punto di partire, ma sempre qualche evento o qualche nuovo pensiero l’aveva fermato. O la salute malferma della madre o qualche grana da sistemare giù in paese o semplicemente perché, all’ultimo istante, gli sovveniva d’un qualcosa a cui non aveva ancora pensato e che gli faceva ritenere di non essere pronto abbastanza.
E, col tempo che passava, questi ostacoli che l’inducevano a procrastinare, anziché farsi più rari, divenivano sempre più numerosi ed importanti, sicché Domenico cominciò alfine a dubitare che la vita gli sarebbe bastata a prepararsi.
Per giunta la stazioncina del paese, dove ogni tanto fermava qualche raro treno regionale, era stata chiusa ed ora, per pigliare il treno, ci si doveva recare fino al capoluogo, distante trenta chilometri.
A questo pensava anche quella notte, rigirandosi nel letto in compagnia delle sue ossa e dei loro dolori, e si diceva che in fondo quella vita non era stata così male; come una tranquilla passeggiata in calesse lungo una strada piana e bene assestata. Anche se altro era ciò che avrebbe desiderato. L’Intercity di mezzanotte e quaranta arrivò improvviso, sferragliando e divorando tutti i suoni quieti della notte. Domenico quasi non lo avvertì nemmeno, e non si sognò neppure di affacciarsi alla finestra per guardarlo passare.
Adesso che anche l’ultimo treno era corso via, la campagna era stata nuovamente riassorbita dal buio ed ancora si udiva la voce dei ranocchi.
Domenico si voltò dall’altra parte e chiuse gli occhi. Ma di lì a poco un rumore improvviso glieli fece riaprire e si accorse di essere sul treno. Non ricordava quando c’era salito né dove stava andando, ma era molto eccitato e la locomotiva fischiava trainando le carrozze sempre più velocemente. Fuori era buio e s’intravedevano rari lampioni, come lampi di luce, e finestre di stanze illuminate da cui certamente qualche ragazzo lo stava osservando invidioso, come aveva fatto lui nella giovinezza.
Finché ad un tratto tutto fu buio (forse il treno era entrato in galleria) e non s’udì più alcun rumore. Non il fischio della locomotiva, non lo sferragliare delle ruote sulle rotaie. Pareva di viaggiare su una navicella nello spazio infinito, non fosse stato per quella strana luce diffusa che si andava aprendo là in fondo.

Fedele amica.

Quando ero depresso e stanco

tu eri lì, al mio fianco.

Quando il vento e la grandine

della vita s’accanivano su di me

senza un attimo di tregua,

tu eri ancora lì, al mio fianco.

Quando ogni cosa sembrava

volgere al peggio

e non esservi più speranza,

tu eri sempre lì…al mio fianco.

Mia cara Camilla…

non sarà mica

che porti un po’ sfiga?

Psicoterapia.

– Buongiorno, professore.

– Buongiorno. Si accomodi, la prego. E mi racconti cosa l’affligge.

– Ecco vede, come ho già detto al mio medico, mi   accade una cosa piuttosto strana, che mi fa temere di non esser normale, e per la quale ho come l’impressione di venire pian piano emarginato dall’altra gente…

– Mi dica, sono qui per aiutarla.

– Il fatto è, professore, che io sono abbastanza contento della mia vita…

– Come dice? Lo può ripetere?

– Sì, ecco…non mi prenda per pazzo, per favore… ma a me la vita piace così com’è e, se anche me ne fosse data la facoltà, non farei nulla per cambiarla. La prego, sia sincero: mi dica cosa ne pensa…

– Sarò franco…in trent’anni di professione un caso del genere non mi era mai capitato. Non sarà facile indagare da quali traumi sia derivata una simile condizione. Non le posso garantire nulla…ma farò il possibile per aiutarla. Adesso si metta comodo e mi racconti: quando ha iniziato ad avvertire questa insana sensazione?

La costruzione di un amore.


Una delle più belle canzoni d’amore che siano state scritte.
Per ricordare che l’amore non è solo poesia ma anche sangue, sudore e lacrime… ed è comunque un’opera che richiede sempre quattro mani (e che siano solo quelle…)

La costruzione di un amore
spezza le vene delle mani
mescola il sangue col sudore
se te ne rimane

La costruzione di un amore

non ripaga del dolore
è come un altare di sabbia
in riva al mare

La costruzione del mio amore
mi piace guardarla salire
come un grattacielo di cento piani
o come un girasole

ed io ci metto l’esperienza
come su un albero di Natale
come un regalo ad una sposa
un qualcosa che sta lì
e che non fa male

E ad ogni piano c’è un sorriso
per ogni inverno da passare
ad ogni piano un Paradiso
da consumare

dietro una porta un po’ d’amore
per quando non ci sarà tempo di fare l’amore
per quando vorrai buttare via
la mia sola fotografia

E intanto guardo questo amore
che si fa più vicino al cielo
come se dopo tanto amore
bastasse ancora il cielo

e sono qui
e mi meraviglia
tanto da mordermi le braccia,
ma no, son proprio io
lo specchio ha la mia faccia

sono io che guardo questo amore
che si fa più vicino al cielo
come se dopo l’orizzonte
ci fosse ancora cielo

e tutto ciò mi meraviglia
tanto che se finisse adesso
lo so io chiederei
che mi crollasse addosso

E la fortuna di un amore
come lo so che può cambiare
dopo si dice l’ho fatto per fare
ma era per non morire

si dice che bello tornare alla vita
che mi era sembrata finita
che bello tornare a vedere
e quel che è peggio è che è tutto vero…

di Ivano Fossati
da: La Pianta Del Tè – CBS 1988

Risveglio

Ai cancelli dell’alba
ricorderemo i nostri sogni.

E ci saranno cari come figli
e ci daranno pena come figli.

Brilleranno solo un attimo…
e non saremo più a tempo.

Saper dire “Ho sbagliato”…

Non è facile riuscire ad ammettere i propri errori .Non molti sono disposti a farlo. Forse perché il riconoscere d'aver sbagliato costringe a mettersi in discussione e l'autostima di alcuni non è grande abbastanza da poterselo permettere.

I modelli che fino dall'infanzia ci sono stati proposti sono sempre stati di personaggi, eroi o supereroi, che in qualunque situazione, per quanto estrema, sapevano sempre la cosa giusta da fare e non avevano la minima esitazione nell'intraprendere quelle azioni che avrebbero, anche contro ogni aspettativa, risolto la situazione.

Questo ha contribuito a creare adulti insicuri, che tuttavia rifiutano di riconoscere la propria umana fallibilità e temono di veder sminuita, in primo luogo ai propri occhi, l'immagine di sé, se mai si risolvessero ad ammettere di aver commesso un errore.

Primavera è nell’aria.

Primavera è nell'aria.

La senti dalle piccole cose.

Dalle garrule voci dei bimbi,

nelle corse sfrenate

all'uscita da scuola.

Dall'inquieto abbaiare dei cani

che si effonde da orti e giardini.

Dal paziente ronzìo

d'un motore, che recìde

il tenero crescer dell'erba.

Dal trillo gaio d'un campanello

che rivela sull'uscio

un'impensata presenza…

Ci mancava solo mia suocera:

adesso la rottura di coglioni

è completa!

La sveglia.

Una scarica elettrica nel cervello. Maledizione! Non può essere già la sveglia!…….E invece lo è…. Sembrava trascorso un attimo da quando abbiamo deposto i pensieri sul cuscino. Ed ora ci tocca già tirar fuori tutto il coraggio per affrontare il primo drago della giornata. Né ci consola pensare che, se la vita è sogno (Calderón de la Barca,…. non Marzullo!), siamo trascorsi soltanto ad un'altra fase del nostro sonno…

Non piangete per lo stambecco.

Sembra che una delle attività che procura maggiori soddisfazioni alla gran parte delle persone – nonché argomento prediletto per gli incontri casuali in ascensore – sia il lamentarsi delle condizioni climatiche contingenti. Sempre e comunque.

Ora, se trovo senz'altro condivisibile, per quanto sterile, il dolersi di un'estate troppo calda ed afosa o di un inverno eccessivamente rigido e prodigo di perturbazioni, reputo estremamente fuori luogo le lagne che di questi tempi salgono al cielo in conseguenza di una stagione invernale eccezionalmente mite.

Ma come?… dopo che per anni abbiamo eletto a gran maestro dei luoghi comuni la pretesa scomparsa delle mezze stagioni (da pronunciarsi scuotendo leggermente il capo), adesso abbiamo il coraggio di dispiacerci per il perdurare di questo lungo, carezzevole, insperato inverno autunnale?!

E quegli originali genialoidi dei giornalisti cavalcano l'onda e stimolano l'ansia delle masse tuonando contro quella che in fondo è solo una felice anomalìa.

L'ultima chicca è un servizio apparso di recente in televisione nel quale ci si preoccupava delle conseguenze sugli stambecchi, che sarebbero (secondo loro) disorientati da questo clima mite e impossibilitati ad utilizzare il grasso in eccesso, accumulato per sopravvivere ai rigori invernali.

Oh brutta specie di bischeri dall'encefalo più ridotto di quello che distingue quella razza cornuta,… ma non vi è venuto il sospetto che magari, se aveste potuto intervistare qualcuno di quei poveri animali, si sarebbe dichiarato felice di trovare prati verdi, e quindi cibo in abbondanza, al posto di impervi lastroni di ghiaccio e cumuli di neve fresca? Felice di poter brucare tranquillamente sotto i raggi di un tiepido sole, invece di doversi riparare da qualche gelida tormenta?

Non mi sembra proprio il caso di contristarci, mentre loro si godono in pace questo insperato dono del cielo.

Se poi proprio dovesse risultare che si sentono un po' a disagio per l'impossibilità di liberarsi del grasso superfluo, basterà ricoverarli per qualche settimana in una beauty farm dove, tra diete, fanghi e massaggi, potranno rapidamente recuperare la loro linea migliore.