Un amore estivo

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Che bello, amore,

inseguirti nei campi di grano

tra il festoso carnevale

dei papaveri e dei fiordalisi.

 

 

Che bello, amore,

venirti a cercare, nascosta

nell’intrico lussureggiante

dei pennacchi di granturco.

 

 

Che bello, amore,

rotolarci nudi

su un letto di fieno odoroso

ancora tiepido di sole.

 

Che dolore, amore,

il forcone del contadino

che mi è entrato

nelle natiche

senza preavviso…

Nota a piè di pagina.

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Alcune osservazioni lasciati dalle cortesi visitatrici in calce al post precedente mi inducono a riflettere ancora una volta sull’estrema pigrizia della nostra mente (la mia compresa) nell’adagiarsi su certi stereotipi che l’uso comune ha reso dominanti.

Su tale pigrizia si basano certe facezie, camuffate da quiz d’intelligenza, del tipo se sia lecito per un uomo sposare la sorella della propria vedova.

Or dunque, care amiche, laddove io scrivevo d’aver sentito la mano scendere fino lì, non dovete intendere che fosse proprio “lì”. Questa particella infatti costituisce un avverbio che può servire ad indicare un luogo qualsiasi, e che nella fattispecie era la tasca posteriore destra dei pantaloni. Soltanto l’attacco simil-poetico del componimento ed una certa deriva maliziosa della vostra mente ha potuto farvi immaginare qualcosa d’altro.

Del resto, ormai da tempo, le mie lettrici più affezionate si sono attrezzate di paracadute, in vista dell’improvviso e irrimediabile precipitare dei miei voli pindarici.

Noi due, nella folla

 

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Noi due come un’isola

nella folla del sabato

pomeriggio.

Due gocce di pioggia

che s’incontrano

rigando il vetro.

 

Avevi occhi solo per me

ed incurante

degli altri

ho sentito la tua mano

esperta e silenziosa

scendere

fino lì.

Dove ha incontrato

la mia mano

saggia

che diceva:

“Fermati finché

siamo in tempo,

fermati ch’è

meglio così”…

 

 

E provaci ancora,

bastardo,

a ciullarmi

il portafoglio!